Chi fu Jacopo Bozza? - I Telegrafi delle Due Sicilie

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Miscellanea | Chi fu Jacopo Bozza?

Jacopo Bozza nacque a Milano il 22 aprile 1824, ufficiale della Österreichische - Venezianische Kriegsmarine, [1] nel corso dei moti del 1848 aderì alla Repubblica di San Marco [2] prendendo parte alla mobilitazione contro l’occupazione austriaca.
Riconquistata Venezia, gli austriaci operarono una profonda ristrutturazione della propria arma marittima spingendo i quadri compromessi con gli eventi del 1848 - 1849 ad abbandonare le fila della Marina imperiale.
Bozza fu tra questi e, tra il 1850 ed il 1851, si riconvertì all'iniziativa industriale dando vita ad una fabbrica per la produzione di zolfanelli.
Nel 1856 spostò i suoi interessi a Napoli ove si stabilì, come si evince dagli atti notarili,  in un appartamento alla “strada di Chiaja, nella scala che conduce al ponte[3].
Protagonista assoluto della stagione degli appalti telegrafici nelle Due Sicilie, Bozza rivelò una inaspettata competenza nel campo che gli fruttò l’affidamento dei lavori per la costruzione delle linee a Sud di Cosenza, a cui fece seguito l’appalto per la distesa dei collegamenti sottomarini tra Reggio e Messina, tra la costa Flegrea e le isole di Procida ed Ischia, tra Otranto e Valona.
I successi conseguiti alimentarono una certa ostilità degli ambienti militari, politici e di corte nei confronti dell’imprenditore lombardo. Un clima peraltro favorito dalla malcelata supponenza anti-napoletana del Bozza e dal coalizzarsi d’interessi colpiti dalla sua "intraprendenza".
Più volte scontratosi con i vertici della Real Marina e del Ministero delle Finanze, fu sottoposto ad una discreta attività d’osservazione da parte della polizia.
Nel 1858, auspice la protezione accordatagli da Alessandro Nunziante [4], Bozza fu nominato ispettore generale dei telegrafi elettrici, ed in virtù di tale incarico fece parte della reale delegazione che partecipò alle trattative per lo stabilimento di una linea telegrafica internazionale tra le due Sicilie, l'impero Ottomano e la Grecia.
Nell'estate del 1860 fu arrestato per una presunta attività di spionaggio compiuta, secondo l’accusa, intercettando i dispacci telegrafici diretti al Re attraverso la centrale operativa del Ministero delle Finanze.
Giacinto de Sivo, nella sua "Storia delle Due Sicilie - 1847 - 1861" (Vol. II), riporta che il Re (Francesco II) il 18 maggio 1860, inviò il generale Nunziante in Sicilia per conferire personalmente col generale Lanza e consegnargli la copia del nuovo cifrario per le trasmissioni telegrafiche. Una prudenza, a detta del De Sivo, dovuta alla certezza che a Napoli agisse un traditore difatti, benché in cifra, i dispacci riservati puntualmente venivano pubblicati in chiaro sulla stampa unitarista della Capitale.
Tutti i sospetti si concentrarono sul Bozza, accusato di trasmettere ai comitati settari filo sabaudi i messaggi cifrati, senza trascurare di sopprimerne alcuni o addirittura di falsarli per comunicare al Re notizie di presunte diserzioni di massa o di sconfitte delle armi napoletane (azione di controinformazione). L’imputazione e la destituzione furono un ottimo investimento per Bozza, all'arrivo di Garibaldi a Napoli nel settembre del 1860, si era già guadagnato un utile passaporto divittima del Borbone”.
Dopo il 1860, la campagna di “moralizzazione” ispirata da Cavour, e diretta a disfarsi dell’industria e dell’amministrazione pubblica dell’ex regno delle Due Sicilie, scatenò i più disparati appetiti.
Pronti a rinnegare il proprio passato, ed i vantaggi ricevuti, una legione d'affaristi procurò d’accreditarsi agli occhi “generosi” del dittatore Garibaldi prima, e del governo luogotenenziale sabaudo poi. Bozza appartenne a questa folta schiera, sebbene non godesse d'ottima fama nei circoli anti-borbonici, il giornale satirico d'orientamento repubblicano, "L'arca di Noè", nel numero dell'otto agosto 1862 lo definì come uno specchiato borbonico ed "ex amico di Radetzky".
Prodigandosi soprattutto “finanziariamente” per la "causa italiana", Bozza tentò invano di mantenere un ruolo centrale nella nuova amministrazione telegrafica. Garibaldi fu di tutt'altro avviso e lasciatolo da parte, assegnò l’incarico di Organizzatore Generale de’ Telegrafici Elettrici delle Due Sicilie [5] all'ex garibaldino e massone Giovanbattista Pentasuglia, emigrato politico in Piemonte, lucano di nascita, figlio di un impiegato della ricevitoria di Matera.
L’estromissione del Bozza fu parte di un più vasto disegno teso a screditare la qualità delle infrastrutture nelle “provincie meridionali”, a tutto vantaggio di nuovi appalti, nuove concessioni, nuovi affari.  
La telegrafia napoletana, reputata "insufficiente" nelle strutture e negli uomini, fu riorganizzata secondo il modello “piemontese”, le linee a Sud del Garigliano completamente ricostruite.
Bozza, esclusivamente per salvaguardare i propri interessi, si oppose al tentativo di linciaggio morale messo in opera nei suoi confronti pubblicando un pamphlet difensivo dal titolo “Cenni storici sulla telegrafia elettrica nelle due Sicilie dalla sua istituzione fino a’ giorni nostri” .
Con la fine della Luogotenenza a Napoli, il partito sabaudo si rafforzò grazie all'azione politico – militare del generale Cialdini. Bozza, nell'anno e mezzo trascorso dalla caduta della dinastia napoletana, lavorò al consolidamento della propria posizione rivolgendo i suoi interessi all'industria meccanica e siderurgica.
Tessuta una rete di relazioni massoniche, politiche e finanziarie che da Torino, passando per la  Toscana, giungeva sino a Napoli, il 10 gennaio 1863 riuscì ad ottenere dal primo governo Minghetti la concessione trentennale per gestire l’ex Reale Opificio di Pietrarsa, all'epoca tra i più grandi stabilimenti meccanici della Penisola.
La società per la gestione dello stabilimento si costituì il 9 maggio 1863 con un capitale di 5 milioni di lire, ne facevano parte in qualità di maggiori azionisti Gregorio Macry e Francesco Henry, animati dall'idea di creare un polo siderurgico - meccanico riunendo le proprie officine dei Granili con l'opificio di Pietrarsa.
Nel maggio dello stesso anno Bozza s'adoperò per ottenere dal comune di Piombino una licenza per impiantare uno stabilimento siderurgico in associazione [6] con l’imprenditore anglo-genovese Jospeh Alfred Novello, il direttore delle ferriere di Follonica Auguste Ponsard, ed il di lui genero, Alessandro Gigli.
Se le due operazioni fossero andate in porto, Bozza ed i suoi sodali avrebbero avuto ottime possibilità d’imporsi in tutte le commesse, soprattutto ferroviarie, previste dai programmi governativi per le province ex napoletane.
Pietrarsa avrebbe costruito le locomotive, gli accessori, le macchine a vapore, etc., mentre lo stabilimento di Piombino avrebbe fornito tutto il ferro necessario.  Gli eventi però, presero un’altra piega.
L’affidamento dell’Opificio di Pietrarsa non passò sotto silenzio. Giornali come “Il Pungolo[7], impegnatosi per circa due anni contro la cessione delle officine, si unì a quanti ritennero la prossima ventennale convenzione tra il Bozza e lo Stato un atto di favore nei confronti dell’imprenditore milanese ed ella sua cordata, a tutto discapito del pubblico erario.
Tra le priorità del programma di gestione della nuova proprietà dell'opificio di Pietrarsa vi fu la riorganizzazione della produzione e sensibili tagli all'occupazione. Un programma che s'innestava in una situazione sociale già tesa.
Nel 1862 gli operai di Pietrarsa si erano già resi protagonisti di alcune manifestazioni di protesta in appoggio alle maestranze dell’Arsenale dell'esercito, contro il ventilato smantellamento del loro opificio ed il trasferimento a Torino delle produzioni militari, ed ai lavoratori della costruenda stazione della ferrovia dell’Italia meridionale contro i massacranti orari  di lavoro ed il ribasso dei salari.
Prima che il Parlamento potesse ratificare la concessione dello stabilimento di Pietrarsa, la mattina del 6 agosto 1863 insistenti voci sul prolungamento di un’ora della giornata lavorativa nel periodo estivo (da 10 a 11 ore), secondo quanto già avveniva negli altri stabilimenti della penisola, spinse i "battimazza" del reparto forge dell'ex reale opificio a richiedere in contropartita un proporzionale aumento del salario. La richiesta fu respinta dal Bozza che per dimostrare la propria forza, applicò una "cauzione" con trattenuta di tre giorni di paga e minacciò il licenziamento di sessanta operai dell’officina delle forge. Gli eventi ben presto precipitarono, tra le maestranze si fece largo la convinzione che il sovrintendente dell'opificio, tal Filippo Pinto, fosse l'ispiratore dei provvedimenti minacciati dal Bozza. Alle ore 15 circa, il battimazza Giuseppe Aglione diede i rintocchi di campana che segnavano la sospensione del lavoro dichiarando, in seguito, d'aver agito su ordine del Pinto.
Lasciato il lavoro, circa seicento operai si riunirono nel cortile iniziando a reclamare a gran voce "Fuori Pinto!", "Fuori Pinto!".
Bozza, seguito dal suo segretario Zimmermann, lasciò lo stabilimento attraversando la folla vociante, senza subire alcuna aggressione. Trascorsero alcune ore senza che nulla accadesse, tra gli operai si fece largo la richiesta di rientrare alle proprie case ma i più accorti, consigliarono di non muoversi dalla fabbrica, almeno sino a che non si fosse svolta la consueta ispezione in uscita, per evitare contestazioni su eventuali presunti ammanchi di materiali.
Giunse da Napoli l'ex responsabile delle officine, il capitano Ferreri, predecessore di Bozza, benevolmente accolto dagli operai, egli  invitò alla calma e consigliò di costituire una delegazione per avviare una trattativa. Intanto, a Portici l'autorità militare e di pubblica sicurezza fu allertata da voci di disordini filo borbonici, s'immaginò Bozza salvo per miracolo, Pinto forse trucidato, e la folla abbandonatasi ad ogni possibile atto di ferocia reazionaria nel nome di Francesco II.
Senza accertare la realtà dei fatti, fu immediatamente inviato alle officine un battaglione. A passo di carica una compagnia di bersaglieri prese posizione innanzi il cancello chiuso della fabbrica e, benché poco dopo l’arrivo dei soldati fosse stato spalancato dagli stessi operai, il comandante, senza alcuna necessità o preavviso, ordinò ai suoi uomini di far fuoco su quella massa inerme.
Nel concitato susseguirsi degli eventi, di voce in voce, Napoli  seppe che dinanzi i cancelli del Real Opificio alcuni operai ebbero a perdere la vita, chi sotto il piombo dei moschetti, chi per gli assalti alla baionetta, chi annegato in mare cercando scampo.
Le versioni sul numero delle vittime furono diverse; dai quattro operai uccisi e dodici feriti, secondo il rapporto del delegato di polizia [8], ai sette morti e venti feriti riportati dalla cronaca del giornale napoletano d'ispirazione mazziniana, "Il Popolo d'Italia".
Ufficialmente, per "i luttuosi fatti di Pietrarsa" si celebrarono i funerali degli "artefici" Luigi Fabbricini, Aniello Marino, Domenico del Grosso e Aniello Olivierino.
I documenti dell'epoca attestano che i morti accertati sul posto furono Luigi Fabbricini ed Aniello Marino, mentre Domenico Del Grosso ed Aniello Olivieri morirono all'Ospedale dei Pellegrini di Napoli. Rimasero gravemente feriti gli operai Aniello de Luca, Domenico Citale, Mariano Castiglione, Salvatore Calamagni, Antonio Coppola. Meno gravemente feriti gli operai Alfonso Miranda, Raffaele Pellecchia, Giuseppe Chiariello, Carlo Imparato, Tommaso Cocozza, Giovanni Quatonno, Giuseppe Calibè, Leopoldo Aldi, Francesco Ottaiano, Pasquale De Gaetano, Vincenzo Simonetti, Pasquale Porzio.
Verso la sera di quel 6 agosto giunse a Pietrarsa Nicola Amore, questore di Napoli, per condurre personalmente le indagini. Gli operai fermati, furono trovati privi di armi o strumenti atti ad offendere e quindi rilasciati ad eccezione di Giuseppe Aglione, reo d'aver suonato la campana ma successivamente, rilasciato anch'egli.
Verso sera il giudice mandamentale di Barra rinvenne "parole esecrande più che detestevoli", tracciate con il carbone sul muro tra la chiesa e le officine di Pietrarsa: "Morte a Vittorio Emanuele. Il suo regno è infame. La Dinastia Savoia muoja per sempre!  Viva sempre il longanime governo dei preti! Stia sempre in Italia il governo del Papa!"
Il racconto dell'eccidio, riportato da tutti giornali, scosse Napoli suscitando commozione e grande scalpore. Il giornale legittimista "La Borsa", diretto da Domenico Ventimiglia, riportò la notizia della sanguinosa repressione degli operai di Pietrarsa e il 14 agosto organizzò, nella zona di Portacapuana, la distribuzione di volantini contro il governo. Il 19 settembre il giornale venne chiuso dalla polizia seguendo la sorte che accomunò tutte le testate reputate "reazionarie" o "filo-borboniche" come La Tragicommedia, il Nuovo Guelfo, il Corriere del Mezzodì, L’Araldo, il Flavio Gioia, La Settimana cattolica, L’Unità cattolica, L’Italia reale, Il Napoli, la Campana di San Martino, il Conciliatore. Analogamente, la stampa d'opposizione, sia essa cattolica, repubblicana, socialista libertaria o autonomista, non fu risparmiata dalla censura italiana, e giornali come L'Arca di Noè, il Popolo d'Italia, La Campana del Popolo furono sequestrati e le redazioni chiuse.
Il governo di Torino, attaccato da tutte le opposizioni sugli incidenti di Pietrarsa, ordinò l’arresto dell’ufficiale che comandò il fuoco, per poi dichiararsi impegnato affinché si svolgesse una rigorosa inchiesta.
Bozza, moralmente condannato dall'opinione pubblica, incalzato dalla stampa di sinistra, affidò la propria difesa alle colonne de “La Patria[9], giornale filo sabaudo di cui fu direttore e comproprietario.
Tra le posizioni assunte dai giornali in quei giorni, quella della “Civiltà Cattolica" [10] si distinse per lo scetticismo verso gli esiti dell’inchiesta governativa e la ferma critica all'operato del Bozza, definito un uomo che, già prima di quella triste mattina del 6 agosto,"trovò modo di rendersi molto inviso alla parecchie centinaia d'operai che da più anni vi guadagnano il loro pane".
Trascorsero tre giorni dai "fatti di Pietrarsa", il 9 agosto 1863 nel mentre Bozza, in compagnia del signor Francesco Henry, attraversando in carrozza il vico della Conceria nella zona del Mercato, un uomo, rimasto sconosciuto, gli esplose contro alcuni colpi di rivoltella per poi allontanarsi dal luogo dell'attentato "quitamente, senza che alcuno si movesse per arrestarlo" (Civ. Cat. Op. Cit.).
Le conseguenze fisiche dell’atto furono lievi, una ferita  provocata da due palle incatenate conficcatesi nell'avambraccio sinistro e prontamente asportate dal prof. Onofrio Comito presso l'ospedale dei Pellegrini, tuttavia l'attentato persuase Bozza che nell'ex capitale delle due Sicilie non avrebbe potuto più godere di sicurezza personale, di libertà di manovra e di sufficienti consensi.
Molti i fattori che lo dissuasero dal proseguire la sua attività, innanzi tutto la possibile consistente richiesta governativa di revisione del canone di ceditura, spinta da un acceso e critico dibattito in parlamento sull'intera operazione di concessione delle officine ed inoltre, la morte degli operai, il suo ferimento e le minacce ricevute da alcuni soci, stavano spingendo molti degli azionisti a rinunciare alla loro partecipazione alla società. Abbandonato ogni residuo indugio Bozza, dietro richiesta di un congruo compenso, decise di dirottare altrove le proprie attività industriali, pur senza trascurare di guardare alle province napoletane come ad un ottimo mercato.
Il 30 settembre 1863 Bozza ed i suoi soci rinunciarono allo stabilimento di Pietrarsa. Il 9 ottobre dello stesso anno, la neo costituita Società Nazionale d’Industrie Meccaniche (S.N.I.M.) [11], in cui Bozza fu comunque interessato per una quota di quattrocento azioni, rilevò le officine di Pietrarsa ed il vicino stabilimento dei Granili di proprietà della Macry, Henry e C.
Tra gli azionisti di maggior spicco della S.N.I.M. figurarono Luciano Serra duca di Cardinale, poi eletto presidente del Consiglio d’amministrazione, Maurizio Barracco ed il marchese Pallavicini, Vincenzo Pignatelli principe di Strongoli ed alcuni commercianti e rappresentanti di ditte nazionali ed estere tra cui Oscar Meuricoffre (per l’omonima ditta) e Ludovico Mohl (per la casa Bolkow & Vaughan), ed ancora due minori ditte siciliane. Amministratore delegato e maggiore azionista fu designato Gregorio Macry, vero regista dell’intera operazione [12] tesa a creare creare una forte concentrazione industriale meccanico-siderurgica, per partecipare alle grosse commesse governative.
L’inchiesta sui drammatici fatti del 6 agosto, per intanto, imboccò una lunga e tortuosa strada, sino a perdersi nel nulla, Il clima emergenziale e repressivo, frutto della Legge Pica, fece sì che la ricerca della verità fosse accuratamente distorta ed occultata. L'inchiesta della magistratura proseguì sulla strada del teorema cospirativo, una operazione politico-giudiziaria e mediatica, orchestrata per occultare le responsabilità del governo, del Bozza, dell'esercito e della questura nella strage degli operai di Pietrarsa. Nel tentativo di ripulirsi dal sangue innocente versato, nell'agosto del 1863 fu istituita una commissione prefettizia con l'incarico d'indennizzare i famigliari dei feriti e dei deceduti con una elemosina di stato. Sul numero 115 del 13 agosto 1863 "La Campana del Popolo" riporta: "La commissione incaricata dal prefetto di distribuire la vistosa somma di 400 Lire si diresse in una di quelle disgraziate famiglie orbata del padre per darle due napoleoni d'oro; il figlio della vittima rifiutando le due monete d'oro disse alla commissione; voi intendete comprare la vita di mio padre con due napoleoni,  ma il sangue di mio padre bisogna che sia pagato con il sangue".  Nel successivo numero 140 del 16 settembre 1963 il medesimo giornale propose il resoconto dell'interrogatorio, condotto dal giudice istruttore, del capitano Ferrari e del supplente del  giudice di mandamento per San Giovanni a Teduccio, il quale stilò il primo verbale nel giorno dei cosiddetti "fatti di Pietrarsa". Nel confronto tra le dichiarazioni del Ferrari, e quelle contenute nella relazione del giudice supplente, il tribunale tentò di dimostrare che quanto riportato nel primo documento giudiziario, non rispondesse alla verità dei fatti. Per ben quattro ore si fece pressione sul Ferrari per ottenere, invano, dichiarazioni che smentissero le circostanze verbalizzate secondo le quali, quando gli operai furono colpiti dalla fucileria italiana, si trovavano tranquillamente seduti o in piedi nel cortile dell'opificio, nell'attesa degli esiti della commissione, e che nessuna contestazione antigovernativa era in atto. Lo scopo era quindi invalorare il rapporto del supplente mandamentale che dimostrava lo stato d'assoluta non pericolosità dell'adunanza operaia e quindi, totalmente ingiustificata e criminale la violenza applicata dalle truppe verso la folla inerme. Il giudice istruttore, seguendo evidenti indicazioni di carattere politico, nel corso dell'interrogatorio rivolse pressioni di tutti i tipi verso il supplente, inclusa l'accusa di essere sostanzialmente compiacente con gli operai, in considerazione del suo "borbonismo", per il sol fatto d'avere un fratello, ex dipendente delle deposta real casa che, per un certo periodo, fu al seguito del Re Francesco II nell'esilio romano. Nella costruzione del falso teorema del "torbido borbonico" contribuirono varie circostanze, tra cui la distribuzione di un proclama "Ai Popoli delle Due Sicilie" [13], diffuso clandestinamente a Napoli dopo i fatti di Pietrasa, e l'arresto, nell'agosto del 1863, di Gaetano de Clemente di Latronico, dipendente dell'Opificio, implicato con la banda Crocco. Secondo alcune lettere, rinvenute nel portafoglio di Carmine Crocco, Gaetano De Clemente prometteva di reclutare altri uomini per rafforzare la formazione del generale dei "briganti" pertanto, fu agevole collegare i fatti di Pietrarsa all'azione anti-italiana del De Clemente, sospettato di pescare adepti, proprio tra gli operai del reale opificio. Tuttavia l''interrogatorio del Ferrari e del supplente, non ottenne i risultati sperati, anche per la ferma ed onesta posizione assunta dallo stesso Ferrari. Il supplente del giudice mandamentale di San Giovannia Teduccio, ovviamente, fu destituito dall'incarico. Quella di Pietrarsa, può considerarsi, a ragion veduta, una delle prime "stragi di stato" rimaste impunite, parte di un lungo doloroso elenco che ha accompagnato e deviato la storia dell'Italia unitaria sino ai nostri giorni.
Jessie White Mario [14] nel suo “In memoria di Giovanni Nicotera”, pubblicato nel 1894, ricordò che per “… i fatti dello stabilimento di Pietrarsa (Napoli), narrati da un onesto Corrado Campanili, impiegato del personale contabile d’artiglieria, sostenuto da venti testimoni, gli fruttò la destituzione. …”,
Bozza, per intanto, trasferitosi a Piombino, in Toscana, curò la nascita della sua ferriera, un impianto che si giovò, oltre che di macchinari e strumentazioni aggiornatissimi, anche del primo convertitore Bessemer [15] installato  in Italia.
La modernità dei macchinari fu la risultante delle relazioni e degli interessi convergenti dei due soci principali, il Novello ed il Bozza. Difatti, se il brevetto del convertitore fu portato “in dote” da Novello, grazie all'amicizia con Sir Henry Bessemer, macchinari e strumenti provennero da Napoli, acquistati dal Bozza presso le Officine di Pietrarsa, di cui fu ancora azionista attraverso la nuova proprietà.
Nel settembre del 1864 partirono da Piombino due bastimenti per caricare nel porto di Napoli oltre trecento tonnellate di macchinari industriali. Bozza trattò direttamente con Gregorio Macry l’acquisto delle attrezzature, tra cui macchine soffianti, e due laminatoi usati. L’officina di Piombino non ebbe lunga vita e già nel maggio 1865 le divergenze tra i soci, ed una crisi nella fornitura del minerale, portarono allo scioglimento della società ed alla creazione di due nuovi stabilimenti, uno, la “Magona”, di proprietà della società costituita tra Novello, Ponsard e Gigli e l’altro, denominato la “Perseveranza”, di proprietà del Bozza.
La ferriera “Perseveranza”, il cui nome risentì delle “influenze” massoniche, diede lavoro a circa settanta operai, per la gran parte detenuti del vicino penitenziario cittadino, assegnati alle officine in regime di lavoro coatto. Tra il 1866 ed il 1870 lo stabilimento affrontò un ciclo economico altalenante, caratterizzato da continui rallentamenti della produzione.
Bozza, da sempre abituato ad interagire con la politica, decise di sostenere i propri interessi candidandosi al consiglio comunale di Piombino. Eletto nel 1866, agì per assecondare importanti scelte sul piano delle infrastrutture, come la costruzione della strada di collegamento tra il porto, gli impianti industriali e la città o il sospirato raccordo ferroviario tra Piombino e la linea tirrenica.
Dal 1871 al 1873 le sorti produttive della Perseveranza migliorarono ma il 1873 fu anche l’anno del fallimento della banca Cooke di New York, evento che segnò l’inizio della “Grande Depressione”, una crisi di lunga durata (1873 – 1895) che in breve contagiò l’economia mondiale.
La recessione ebbe tra i suoi effetti l’affermarsi di un processo di “concentrazione industriale” che ridusse drasticamente il numero delle imprese, ed accrebbe le dimensioni di quelle che rimasero.
Le banche rastrellando il denaro prodotto dal risparmio pubblico, lo investirono in finanziamenti alle imprese, nell'acquisto di azioni delle stesse, ed in molti casi ne acquisirono il controllo.
Già nel 1872 Bozza ebbe necessità di reperire nuovi capitali e fu costretto ad aprire la propria società all'ingresso di soci finanziari.
La Perseveranza mutò ragione sociale in società anonima “Stabilimento Metallurgico Perseveranza”, la proprietà transitò nelle mani del consiglio d’amministrazione e Bozza vide diminuire il proprio ruolo nella ferriera, sino a doversi accontentare di svolgere la funzione di “direttore tecnico”.
Nel 1876, le proprie difficoltà finanziarie ed il difficile rapporto con i soci spinsero Bozza alla definitiva cessione del proprio pacchetto azionario poco prima che la proprietà della “Perseveranza” fosse acquisita dal “Credito Mobiliare”.
Lasciata Piombino, nel 1876 egli si trasferì con la propria famiglia a Corneto, l’odierna Tarquinia, cittadina agricola al confine tra Lazio e Toscana ove decise d’investire i capitali residui in un’ultima impresa industriale.
Nelle pagine dell’opuscolo “Sulla fabbricazione in Italia delle piastre di corazzatura e delle rotaje in acciaio in condizioni da sostenere la concorrenza estera [16]”, scritto da Bozza nel 1875, s’individuano le idee forza di un programma industriale che egli volle mettere in pratica dedicandosi alla nascita di una nuova ferriera.
Nel 1877 acquistò un vecchio mulino sul fiume Marta le cui acque fornirono la forza motrice alla nuova ferriera. L’intento fu quello di proporsi ancora una volta come imprenditore siderurgico per governo e società ferroviarie, immaginando uno sviluppo delle proprie attività di pari passo con la crescita delle commesse pubbliche.
Alla fine degli anni settanta dell’Ottocento le difficoltà già incontrate perdurarono, mercato ristretto, alti costi di produzione, continua necessità di capitali e scarse commesse pubbliche, costrinsero Bozza ad un accordo con la Banca Generale che prese in affitto la ferriera. Lo stabilimento di Tarquinia non ebbe più alcuna autonomia produttiva, la banca impose la fabbricazione di solo “ferro mercantile ribollito”, ottenuto dalla lavorazione di vecchie rotaie, successivamente acquistato e venduto dalla società anonima “Ferriere Italiane” controllata dalla stessa "Banca Generale”.
Il 6 ottobre 1881 Jacopo Bozza terminò la propria avventura terrena lasciando il testimone al proprio figlio Alessandro che proseguì, pur tra grandi difficoltà, sino al 1893, anno della definitiva chiusura della ferriera.
Circa nove anni dopo, nel 1902, l’impianto fu acquistato dall'ingegnere belga Cassian Bon [17], e trasformato in fabbrica di carta paglia.

[1] Marina da guerra Austro – Veneziana.
[2] marzo 1848 – agosto 1849.
[3] Contratto appalto per la costruzione delle linee elettro-telegrafiche in Sicilia, Atto notaio Giuseppe Martinez di Napoli, n. di repertorio 819 del 6 novembre 1856.
[4] Giacinto De Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Napoli 1964, p. 63.
[5] Art. 2 decreto 16 settembre 1860 a firma del ministro dei lavori Pubblici d’Afflitto e dal prodittatore Sirtori.
[6] La società fu costituita il 10 aprile 1865 presso lo studio del notaio Paolo Galeotti di Piombino.
[7] Il Pungolo, giornale politico popolare della sera del 16 gennaio 1863 – Napoli. Diretto da Jacopo Comin, il giornale si collocò nell'area d’opposizione moderata, con una tiratura di circa seimila copie.
[8] Archivio di Stato di Napoli, fondo Questura, fascio 16.
[9] La Patria” del 23 agosto 1863. Giornale d’opposizione moderata, con una tiratura di circa cinquemila copie, ne fu direttore e comproprietario Jacopo Bozza, l’imprenditore Gerolamo Maglione, dal 1869 senatore del regno d’Italia, fu l’altro proprietario della testata.
[10] Pagine 622, 623 - La Civiltà Cattolica; Anno XIV, Volume VII - Serie V, Roma 1863.
[11] Nella Società Nazionale d’Industrie Meccaniche confluì la Macry, Henry e C., oltre a vari azionisti privati, tra i quali si annoverarono numerose famiglie aristocratiche napoletane come i Serra, gli Spinelli, i Lucchesi ed i Pignatelli.
[12] Alle origini di Minerva trionfante: L’impossibile modernizzazione. L’industria di base meridionale tra liberismo e protezionismo: il caso Pietrarsa (1840-1882). Antonio Puca, Pubblicazione degli Archivi di Stato - Saggi 99 Vol. 3. pag. 95. Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Direzione Generale degli Archivi, 2011.
[13] Testo del proclama del  15 settembre 1863: Ai Popoli delle Due Sicilie! Concittadini, Dopo circa tre anni di esperimento del piemontese governo è tempo oramai di volgere uno sguardo alla nostra presente situazione! Ci fu promesso con seducenti parole la libertà, ed avemmo la servitù ed il più feroce dispotismo; la guarentigia e sicurezza personale, e ne fu dato l'arbitrio e la guerra civile; il benessere e la prosperità universale, e ci fu regalato lo squallore, la miseria, la tirannia, la morte!... Confessiamo, o Cittadini, fummo tutti traditi e l'attuale stato d'oppressione e violenza non ha riscontri nelle nostre istorie! Né per volger di tempo, né col cangiarsi di amministrazioni vi è speranza di potersi migliorare le nostre sorti finché questo sedicente governo, parassito governo, sorretto dai famelici consortisti perdura nel potere con tante male arti usurpato! Si aumentano invece, giorno per giorno le nostre calamità, si aggravano di nuove tasse le nostre sostanze, si fomentano le discordie civili, si aprono sempre nuove piaghe nel seno della Patria! Ma, onde mai un governo tanto esecrato, che spudoratamente fa man bassa su di ogni cosa divina, ed umana; che calpesta l'onestà, le leggi, la libertà, l'umanità, seviziando e tiranneggiando i popoli fino a risponderne colle moschettate a chi gli domanda giustizia e pane (e il fatto lagrimevole di Pietrarsa ne è ben dolorosa pruova) onde mai è tanta possa da reggere ancora? - Concittadini, non regge per la forza dell'armata, che è in piena dissoluzione, perché si è fatta degradare al vile, e ributtante ufficio dei manigoldi e dei birri... Ma fa calcolo, e regge ancora sulle nostre divisioni!... - Concittadini, quando la Patria geme sotto la tirannide di un Governo; quando è in pericolo di maggiori sventure è follia, è grave delitto perdurare nelle gare intestine! La salute della Patria debba essere il supremo pensiero di ogni onesto Cittadino! Legittimisti e non Legittimisti; Liberali e non Liberali; Repubblicani e non Repubblicani, tutti insomma dobbiamo stenderci la mano per salvare l'infelice nostro Paese dalla Piemontese tirannide! Le nostre scissure a che giovano? - A ribadire sempre più le nostre catene, a sostenere un governo maledetto dai popoli e da Dio! Uniamoci adunque nella imminente lotta, ché l'unione fa la forza! I Napoletani, i bravi figli di Masaniello rispondano all'appello dell'eroico popolo dei Vespri!! E sia uno, concorde, universale il grido: ABBASSO IL GOVERNO PIEMONTESE! VIVA L'AUTONOMIA E L'INDIPENDENZA DELLE DUE SICILIE! (fonte "La Campana del Popolo", numero del 16 agosto 1863).
[14] Jessie Jane Meriton White coniugata con Alberto Mario (Gosport, 9 maggio 1832 – Firenze, 5 marzo 1906) d'orientamento liberale - repubblicano, fu una reporter anglo-italiana, documentarista del risorgimento e assertrice della causa unitaria italiana.
[15] Forno che permetteva la produzione di acciaio in un'unica lavorazione.
[16] Edito in Firenze presso la Tipografia della Gazzetta d’Italia 1875.
[17] Pag. 26 La Vie Wallonne, Volumi 42 – 43 Liegi, 1968.
Jacopo Bozza
Jacopo Bozza (1824 - 1881), Ritratto ricavato dall'ovale del monumento funerario nel cimitero di Tarquinia (VT).
La proclamazione della repubblica di San Marco
Venezia, 1848; Proclamazione della Repubblica di San Marco,
Gianbattista Pentasuglia
Gianbattista Pentasuglia (1821 - 1880)
Il nucleo metalmeccanico di Sant'Erasmo ai Granili. Sin dagli anni trenta dell'Ottocento le direttive urbanistiche impartite da Ferdinando II avevano individuato le aree ad Est (Granili) ed ad Ovest (Bagnoli) della Capitale destinate allo sviluppo industriale. Nell'immagine sono visibili la Macry & Henry, la Pattison, il setificio Beaux ed il mulino Parodi. Napoli, estratto da il foglio 19 de "I Granili" della Pianta Schiavoni (1873).
Lettera d'approvazione di Vittorio Emanuele II del decreto legge per la concessione dell'Opificio di Pietrarsa a Jacopo Bozza. Fonte archivio storico della Camera dei Deputati, archivio Camera Regia, disegni e proposte di legge e incarti delle commissioni (1848-1943): Affittamento dello Stabilimento di Pietrasa, 19.03.1863 /303-318 cc./ Volume 38.
il pungolo 1860
"Il Pungolo", fondato quale derivazione dell'omonimo giornale milanese, divenne espressione della borghesia meridionale assumendo posizioni vicine alla sinistra costituzionale. La redazione fu in Napoli al  Vico Santa Maria Vertecoeli N. 9 - Direttore Domenico Castellini.
Prima pagina del giornale d'ispirazione autonomista e repubblicana "La Campana del Popolo" del 6 agosto 1863 che annunciava l'Eccidio di Pietrarsa.
Il Popolo d'Italia, testata mazziniana fondata a Napoli nel 1860
"Il Popolo d'Italia", giornale delle sinistra risorgimentale (mazziniani, garibaldini e reubblicani federalisti) fu fondato a Napoli nel 1860 da Filippo De Boni ed Aurelio Saffi per ordine di Mazzini all'epoca esule a Londra. Espressione dell'Associazione Nazionale Italiana, fu promosso per sostenere il programma politico-militare di Garibaldi, il primo numero fu pubblicato il 18 ottobre 1860.  Il giornale cessò le pubblicazioni nel 1873, un anno dopo la morte di Mazzini.
La Civiltà Cattolica 1863
"La Civiltà Cattolica", rivista fondata intorno al 1850 da un gruppo di gesuiti di Napoli esuli dal Regno di Sardegna, per iniziativa di padre Carlo Maria Curci. La pubblicazione, dal carattere combattivo e polemico, nacque con il proposito programmatico d'entrare in dialogo con la cultura contemporanea per preservare la “civiltà cattolica” dalle provocazioni risorgimentali di massoni e liberali.
Nicola Amore
Nicola Amore questore di Napoli al tempo dei fatti di Pietrarsa (6 agosto 1863). Giudice civile nell'amministrazione giudiziaria delle Due Sicilie. Nel 1860 aderì ai liberali moderati e unitari detti "piemontesi", dopo l'ingresso di Garibaldi fu nominato segretario generale della questura di Napoli sino a diventarne questore nel dicembre 1862. Come questore rivolse la sua azione contro il brigantaggio, la camorra, insediatasi dopo l'arrivo degli "italiani" nella vita cittadina e negli stessi ruoli della Pubblica Sicurezza ma, soprattutto,  esercitò una dura azione repressiva contro borbonici, repubblicani, socialisti ed anarchici.
Relazione Cerusica dell' Ospedale Pellegrini di Napoli per i feriti ricoverati a seguito dei fatti di Pietrarsa (6 agosto 1863). La relazione fu acquista agli atti del commissariato di polizia di Montecalvario. (Fonte: "La campana del Popolo" numeri 110 dell' 8 agosto 1863 e 113 dell' 11 agosto 1863).
Due testate napoletane d'opposizione (la repubblicana "L'arca di Noè" e l'autonomista "La Campana del Popolo") commentano i fatti di Pietrarsa dell'agosto 1863. Tra il 1861 ed il 1872 la stampa napoletana d'opposizione, di qualunque orientamento (legittimista, repubblicana, murattiana, autonomista, federalista, anarchica, etc.), fu egualmente perseguitata dalla polizia e dalla magistratura della "nuova Italia" con sequestri, chiusure di redazioni, soprressione di testate. Emblematico rimane il caso del giornale legittimista "La tragicommedia", diretto dallo scrittore Giacinto de Sivo; la Guardia nazionale di Napoli sequestrò il quarto numero ancora in stampa, e i virgolatori della camorra  filosabauda (dal bastone a virgola che portavano con sé) distrusserro la tipografia. Il direttore de Sivo venne arrestato ed espulso dalla città.
jessy withe
Jessie Jane Meriton White,  repubblicana, scrittrice e filantropa inglese naturalizzata italiana.
separatore
 A mio padre   
(Procida 1930 – Napoli 1980)
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Stampa
Telegrafo  
dal greco antico tele (τῆλε) "a distanza" e graphein (γράφειν) "scrivere", scrittura.





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